martedì 27 agosto 2013

Case di pongo (parte prima)



Oltre al pane, c’è un’altra cosa che in Australia non sanno fare veramente bene: le case. Peter, l’avvocato che ci sta ospitando ora, dice sempre che senza gli italiani l’Australia sarebbe ancora all’età della pietra. Beh, l’Australia senza colonizzazione inglese sarebbe certamente ancora all’età della pietra… e suppongo che conoscere il piombo non abbia reso più felici gli aborigeni…

A parte le digressioni, in Australia (ma anche in America) prima dell’arrivo degli italiani le case si costruivano in legno, in pietra le carceri e i pochi palazzi del potere. La casa era una palafitta in legno, con pali in legno che la tenevano sollevata da terra, pavimento in legno, pareti in legno, nei casi più fortunati il perimetro era in mattoni e questa era la casa della gente comune. Chi si poteva permettere di più aveva la cosiddetta “full-brick” sempre rialzata da terra, ma con mura interne ed esterne in mattoni. Ovviamente case del genere reggono il passare degli anni solo in casi molto fortunati ovvero: se non ci stanno termiti; se l’edificio poggia su un banco di pietra; se sono state fatte delle fondamenta sufficienti sotto i muri. Ho visto case full-brick di un secoletto che stavano benissimo, altre invece che avevano qualche bella crepa… ma il fatto che esistano pochissime case centenarie penso sia un buon indizio sulla sopravvivenza di queste nel tempo.
Oggi, nonostante l’arrivo degli italiani, molti costruttori si ostinano a costruire case con la stessa logica di un secolo fa, ma utilizzando nuovi materiali: quindi la palafitta è su pilastrini di cemento, ma la casa rimane in legno con solo il perimetro esterno in mattoni.

Il che non è proprio ottimale.

Tant’è vero che qualche settimana fa siamo andati con Peter a fare delle foto sotto una casa perché questa stava lentamente affondando, crepando, e da qui la causa. Strisciando sotto la casa abbiamo scoperto l’arcano: il mentecatto che l’ha progettata ha pensato che dei pilastrini in cemento bastassero per tenerla su, mentre chi l’ha costruita non s’è curato di drenare l’acqua piovana. Il risultato è che quando piove l’acqua rimane sotto casa, permea nell’argilla (che s’ammorbidisce) e i pilastrini affondano. In soli cinque anni dalla costruzione la simpatica vecchietta che se l’è comprata s’è trovata con dei creponi di 2-3 centimetri sui cornicioni. Quando ho detto a Peter che in Italia abbiamo smesso di costruire in quel modo 3500 anni fa s’è messo a ridere, poi ha capito che non stavo scherzando.

Quando vediamo alla tv i tornado che si portano via le case, pensiamo a quanto sia forte il tornado, perché pensiamo a come sono costruite le nostre case. Se vedeste queste, non vi stupireste di vedere pezzi di case volare nella tempesta.

C’è da dire che gli italiani oltre alla mafia e all’orticello dietro casa hanno portato in questa remota landa una conoscenza più approfondita del cemento. Nonostante questo c’è ancora qualcuno che si affida alla “ben collaudata” tecnica della palafitta, forse sperando di risparmiare qualche soldo. Stavolta di certo si troverà a pagare cara la sua spilorceria.


martedì 20 agosto 2013

Mulini cinesi



Il vero problema di trovarsi bene in un posto è che ci si sposta poco. Raccontare la routine di campagna può anche essere un buon esercizio di scrittura, ma dubito che appassioni, nonostante non ci sia un giorno uguale all’altro!

Beh, effettivamente nella routine c’è stato qualcosa di nuovo: stanno iniziando a nascere i vitellini, con un intero mese d’anticipo in realtà e, dato che l’erba non è ancora pronta perché non ha fatto la pioggia giusta nella stagione giusta, questo desta una certa preoccupazione sulla qualità della loro crescita.
Qui tutti parlano di riscaldamento globale e cambiamento climatico e tutti sanno benissimo che le ultime stagioni non sono state come le precedenti. Per chi sta nella città questo non è un problema e difficilmente si rende conto se salta una pioggia di stagione o se ne arriva una troppo abbondante nella stagione sbagliata, ma per chi lavora la terra e per chi vive del proprio pascolo, anche la minima variazione risulta importante in quanto porta conseguenze sul raccolto e sul bestiame. Il problema è ancora più sentito quando parliamo dell’entroterra australiano, dove l’acqua scarseggia da sempre e si fa affidamento esclusivamente sull’acqua piovana!
Pare che politici, governi e grandi aziende stiano giocando un po’ troppo con l’unico pianeta vivibile che abbiamo a disposizione…

Intanto, nel clima generale del “facciamo tutti qualcosa di buono per ‘sto pianeta”, il mercato del biologico attira sempre più persone tanto che nonostante la crisi non solo non soffre, ma è addirittura in crescita. Ne sa qualcosa il proprietario del mulino di Gunnedah che da diversi anni si occupa solo ed esclusivamente di farine bio di ogni tipo di cereale che gli passi per la testa. Visti gli ordini si è visto costretto a comprare di corsa altri due silos! Il manager ci mostra l’impianto: otto macine in acciaio a cilindri contrapposti che riducono gradualmente il chicco in farina, separando ogni fase coi setacci. Mi ricordo quando a Castel Madama, il mio paese, c’era il mulino. Ci andavo con mia madre e ogni volta rimanevo a guardare i macchinari come ipnotizzato. La farina era letteralmente ovunque e ogni singolo componente meccanico era a vista, tanto che il mugnaio mi diceva di fare attenzione a non mettere le mani in posti sbagliati, o mi ritrovavo senza. Mi è presa un po’ di nostalgia, anche se l’ambiente era solo in minima parte comparabile. Tutto pulito, macchine controllate da un computer centrale, tutto in sicurezza… altri tempi.

Altri tempi sul serio, perché venti anni fa non c’era la Cina a farci concorrenza! Infatti a quel tempo se volevi un mulino ti rivolgevi agli italiani o ai tedeschi… al massimo ai russi. Oggi invece il mulino di Gunnedah è integralmente cinese, a detta del manager copia spudoratamente identica di un famoso mulino italiano… costato 2 milioni di dollari, contro gli 8 nostrani e gli 11 di uno tedesco. Mentre gufo sul mulino cinese sperando che prima o poi ne compri uno italico, il manager ci porta a zonzo mostrandoci i vari stadi di macinazione, i vari setacci, ci spiega cordialmente ogni cosa in un australiano parecchio forte ma ancora comprensibile. Ci spiega anche che i grani australiani (a causa della scarsità d’acqua) sono talmente duri che se fossero messi a macinare senza prima un leggero ammollo in acqua, starebbero a rimbalzare sui rulli invece di rassegnarsi a diventar farina.

Finito il tour al mulino ovviamente abbiamo comprato un po’ di farina (10 kg), in parte segale integrale, in parte farro. Sì, perché ultimamente m’è presa passione di fare il pane a pasta acida, quello con lievito madre tanto buono che si conserva per diversi giorni! Dovete sapere che in Australia sono all’età della pietra riguardo al pane: hanno principalmente un tipo di pane bianco, che declinano in mille forme, e dei pani integrali che sembrano la stessa ricetta di quello bianco. Non c’è una cultura del pane come in Italia, dove ogni centro maggiore ha il suo pane particolare (penso a quello di Artena, o quello di Lariano, per non parlare dello splendido pane di Altamura…) (cavolo, sto sbavando).

Non contenti di sfornare un pane di bassa qualità, lo riempiono con una barca di ingredienti industriali nutrizionalmente totalmente inutili, se non dannosi, come gli emulsionanti, i coloranti, i conservanti, gli stabilizzanti, gli addensanti e chi più ne ha più ne metta.

Motivo per cui, se voglio un signor pane, me lo devo fare da me, e pare che mi riesca proprio bene!

martedì 6 agosto 2013

L'australica fenice



Dato che i padroni di casa hanno finalmente trovato qualcuno che gli tenga la proprietà, hanno deciso di partire per un’altra vacanza. Come sempre ci lasciano soldi e fuoristrada, ma stavolta ci consigliano di andare a vedere un parco nelle vicinanze: il Warrumbungle National Park.

Si trova a circa 130 km da noi, per cui è fattibile un’andata e ritorno in giornata. Sarah, la padrona di casa, ci racconta di come l’anno scorso tutta l’area sia andata a fuoco, distruggendo migliaia di ettari di bosco, e di come miracolosamente si sia salvato l’osservatorio astronomico.

Pranzo al sacco, sabato mattina decidiamo di metterci in macchina. Che bello muoversi su gomma, liberi di andare ovunque… era tanto (troppo) che non prendevo una macchina per conto mio per viaggiare e cominciava a mancarmi veramente tanto. Certo però le strade australiane non sono appassionanti come quelle italiane, o più in generale, quelle europee! Si tratta infatti di lunghissimi (infiniti) rettilinei, che tutti percorrono a velocità costante.
Se non fosse che bisogna stare attentissimi ai canguri suicidi che si appostano si margini delle strade, ci si potrebbe tranquillamente addormentare col volante bloccato e si arriverebbe a destinazione comunque!
Sì, il canguro ha vocazioni suicide. Come i gatti, all’arrivare di un veicolo invece di scappare in direzione bosco, tende spessissimo a saltare in direzione strada. Il che non è buono, perché un canguro può avere anche dimensioni ragguardevoli diventando parecchio pericoloso per l’automobilista. L’unica cosa da fare, se si vede un canguro bordo strada, è rallentare e pregare che non gli venga voglia di saltare.

Già a 30 km dal parco si iniziano a incontrare gli alberi bruciati, chilometri e chilometri di bosco andati in fumo; poi ecco che s’intravede l’osservatorio: una cupoletta bianca sulla cima della montagna. Decidiamo di deviare per dare un’occhiata. I quattro chilometri segnalati per raggiungerlo sono tutti in salita (ovviamente) e ringrazio che il carburante di questo 3000 turbo non lo stia pagando io…
Con nostro stupore troviamo che accanto all’osservatorio principale ce ne sono molti altri di piccole e medie dimensioni, probabilmente supportano diversa attrezzatura per “ascoltare” e vedere lo spazio profondo. Ancora più stupefacente è che l’ingresso all’osservatorio sia libero e gratuito! Non si entra nella sala comandi, ma si può vedere da vicino la strumentazione, il tutto corredato di pannelli didattici. Scopriamo così che questo è il più grande e il più attrezzato osservatorio astronomico dell’emisfero australe, finanziato tutto coi dollaroni statali che gli permette così di essere corredato di tutta la strumentazione appena uscita sul mercato. Sospiro, pensando a quanto sia generoso lo stato australiano riguardo a ricerca e sviluppo, confrontandolo col nostro stato spilorcio e avido…

Dopo una mezz’oretta arriviamo al parco cercando un percorso per salire in cima alla montagna (un vulcano spento), ma troviamo ovunque la scritta “percorso chiuso causa incendio, pericolo caduta alberi”. Finalmente riusciamo a trovare un percorso aperto, uno dei pochi riabilitati dalla guardia forestale. Possiamo vedere da vicino i giganti bruciati, eucalipti tra i 15 e i 20 metri di altezza. Ma ecco che alcuni tronchi presentano delle foglioline verdi intorno che sbocciano dai tronchi carbonizzati, altri invece stanno rigenerando la corteccia e sono completamente bianchi, per terra una distesa di nuove piantine alte appena dieci centimetri. Sapevo della capacità rigenerativa della foresta australiana, ma vederla di persona è un’altra cosa: un paesaggio spettrale, totalmente morto e che qualsiasi mente sana considererebbe definitivamente compromesso, torna alla vita dalle sue ceneri e, anzi, continua a germogliare sugli stessi tronchi carbonizzati!

Esprimendo questo mio stupore ai padroni di casa, mi hanno detto che in alcuni posti la temperatura era tale da far sciogliere le macchine, tanto che un loro conoscente aveva deciso, in memoria, di prendere la sua auto semi-liquefatta, per appenderla ad un muro di casa come opera d’arte. Eppure, nonostante quelle temperature, gli alberi a inizio stagione hanno rigenerato ugualmente!

Qualche foto all’orizzonte mentre arriviamo alla cima, poi il ritorno a casa, attenti ai canguri suicidi!