Viaggiare in
seconda classe non sempre è meglio che viaggiare in terza. Il tratto da
Phitsanulok a Chiang Mai, rigorosamente in treno, è stato parecchio freddo. Per
non si sa quale motivo hanno deciso di mettere l’aria condizionata al massimo nonostante
la temperatura esterna fosse più che accettabile. Eravamo tutti con almeno una
giacca o una felpa. Arrivati a destinazione ed evitati come di routine i
tuk-tuk, ci siamo diretti a piedi verso la guest house. Abbiamo deciso di
smettere di prenotare posti per andare un po’ all’avventura: una specie di
esercizio per imparare a vivere senza tenere tutto sotto controllo.
In realtà se
avessimo provato a fare un’esperienza del genere un paio d’anni fa ci saremmo
trovati parecchio male: siamo in alta stagione e prima del colpo di stato la
Tailandia era inondata da turisti provenienti da ogni parte del globo. Ora
invece le news hanno disseminato la notizia del cambio di potere col solito
stupido allarmismo con la conseguenza diretta di affondare l’economia turistica
di tutta la regione. In realtà il colpo di stato è stato accolto con molto
favore dalla popolazione e gli unici che protestano sono i politici che sono
stati spodestati, politici corrotti che hanno sperperato soldi con manovre
populistiche e che continuano a voler riprendere il loro posto in parlamento…
mi ricorda uno scenario noto… ma senza colpo di stato (o almeno, non di tipo
militare).
A passeggiare per le strade non vi rendereste nemmeno conto che sia
sotto “regime militare”. Al contrario, non c’è nessuno spiegamento di forze se
non pochissimi militari a guardia delle stazioni e, ovviamente, delle
frontiere. Parlando con i locali c’è un sentimento di stima nei confronti
dell’arma che li ha liberati dalla corruzione di Stato e corpi di polizia.
Qualcuno dice sorridendo che i militari “ci stanno insegnando la democrazia un
poco alla volta”. E non è difficile da credere: invece di rimanere al potere in
eterno, hanno deciso di governare per un annetto in modo da far stabilizzare la
situazione, per poi indire nuove elezioni democratiche. Sono già state indette
e, presto, tutto tornerà alla normalità, turismo compreso.
Chiang Mai è una
città quadrata di circa un chilometro e mezzo di lato, circondata da un largo
fossato. In antichità era dotata di mura ma oggi rimangono solo le quattro
porte e qualche frammento di muro qua e là. Ad osservare le mura non le
trovereste affatto dissimili da mura romane, se non per un piccolo dettaglio:
sono tutte storte. I nostri avi erano ossessionati dal creare edifici con
fondamenta estremamente solide… evidentemente la lezione non è arrivata fino
qui. Tutto ciò che è antico è storto. Storte le mura, storti i chedi, storti i templi ma tutto
miracolosamente ancora in piedi.
Beh, non proprio miracolosamente. È usanza diffusa
in gran parte dell’asia il ripristinare le vestigia dei tempi andati
ricostruendole. Molti si chiederanno dove sia il problema. È presto detto: se
un archeologo decidesse di studiare le strutture per provare a comprenderne la
collocazione storica, si troverebbe con non pochi grattacapi da risolvere.
Tutto viene ricostruito usando gli stessi materiali di una volta e le stesse
tecniche. Persino i dipinti vengono rinfrescati periodicamente lasciando così
come unico indizio dell’età di un monumento la tradizione scritta o orale.
Eventualmente uno specialista saprà trovare altri appigli e l’occhio allenato
scoprirà anche il più piccolo dettaglio utile allo studio ma, immagino,
l’ambiente accademico sarà tutto uno scontro su quella o quell’altra datazione.
Finito
rapidamente il tour di templi e vestigia rimane “solo” da godersi la città.
Piccola, relativamente tranquilla, economica, piena di buon cibo da assaggiare.
Ma, soprattutto, piena di occidentali. Il clima mite, i costi contenuti e la
buona vivibilità in generale l’hanno resa una delle mete più ambite per
lavorare all’estero. La percentuale di asiatici su occidentali è la stessa che
si può trovare a Melbourne solo che qui, gli immigrati, siamo noi. Purtroppo
ovunque arriviamo portiamo la nostra cultura, denaturando quella che
colonizziamo. Dobbiamo andare un po’ fuori città per trovare i sorrisi genuini
e le buone maniere che tanto ci piacciono della Tailandia.
L’ultimo giorno
decidiamo di affittare un motorino per andare a scoprire qualche località più
distante: il distretto dove si produce la seta, il “Tiger Kingdom” e l’area
templare Wat Phrathat Doi Suthep in
cima alla montagna.
All’inizio un po’
incerto, prendo confidenza col veicolo (uno scooterone da 150 cc), poi Ame sale
dietro e siamo pronti per l’avventura! Bisogna stare attenti, il traffico c’è e
la cura per quelli sui motorini non è tanta ma, tutto sommato, non è peggio di
Roma. Basta poco e tutto diventa naturale e divertente, svicolando nel traffico
col vento in faccia!
Nel distretto della
seta abbiamo l’opportunità di osservare tutto il processo produttivo, dalla
falena al tessuto passando per i telai tradizionali a pedale. Ovviamente è
annesso il negozio e i prezzi sono alti, ma giustificati. Il processo per
ottenere un buon tessuto di seta è lentissimo ed incredibilmente laborioso: si
parla di mesi di lavoro per ottenere qualche decina di metri del pregiato prodotto
finito.
Arriva poi il
momento del “Tiger Kingdom”. Entrambi siamo parecchio fissati coi felini per
cui ci sembrava una buona idea toglierci lo sfizio di dare una grattata di
schiena a qualcosa di più grosso di un gatto. Non è stata affatto una buona
idea. Anzi, devo dire che non è e non sarà mai una buona idea questo tipo di
attività turistica. Questi grossi felini devono essere necessariamente drogati
per poter tollerare l’afflusso di turisti che non vedono l’ora di spalmarsi
sulle loro pellicce. Quelli che non sono a contatto col pubblico vivono in
recinti di medie dimensioni ma sicuramente spazi troppo piccoli per loro. Anche
i cuccioli sono spenti… mi prende una tristezza indescrivibile e non posso far
altro che guardare queste mirabili bestie con compassione. Ma forse quelle nei
parchi a tema sono le ultime tigri della Tailandia: non mi sono documentato a
proposito ma i locali mi hanno detto che tigri selvatiche non ce ne stanno più.
Avremmo voluto rimanere a strapazzare di coccole qualche cucciolo ma ci vengono
dati appena 15 minuti. Una miseria. Andiamo via con l’amaro in bocca ma
fortunatamente gironzolare in motorino ci fa tornare il sorriso.
Magliettina,
vento in faccia, temperatura mite, maciniamo chilometri lungo la strada che
porta al tempio. Inizia la salita, i primi tornanti e in poco tempo ci troviamo
qualche centinaio di metri più su; l’aria comincia a rinfrescare, ma è ancora
piacevole. Ma girato dietro la montagna, nella parte in ombra, ecco che arriva
in petto un freddo glaciale totalmente inaspettato. Dopo venti minuti di
tornanti arriviamo ai piedi del tempio battendo i denti, un’escursione termica
mai vista.
Per accedere
all’area sacra bisogna arrampicarsi per uno sproposito di gradini, delimitati
dai soliti serpentoni a fauci spalancate. Sul percorso bambine vestite in abiti
tradizionali che aspettano il turista per farsi una foto e ricevere qualche
moneta. La strada in salita è lunga e ci vuole un allenamento in stile Kung-Fu
Panda per arrivare in cima senza fermarsi. Coi polmoni in mano e la milza a
seguito arriviamo di fronte l’ingresso, sbarrato dal bigliettaio che senza
pietà ci dice “30 baht”. Tiro qualche impropero per la disonestà della faccenda
(potevano pure dirlo all’inizio della scalata, che magari ci pensavo due volte
prima di fare la faticaccia!) e poi, con Ame, decidiamo di non entrare. Perché,
sì, alla fine sono tutti uguali.
Decidiamo così di
camminare attorno per goderci il panorama e, gira che ti rigira,
inaspettatamente ci troviamo all’interno. Scopriamo che il perimetro della
struttura è un colabrodo pieno di ingressi più o meno leciti. L’interno, come
pronosticato, è simile a tanti altri con la sola differenza che qui il chedi (la struttura a campana in cui
riposano le ceneri di un re o un budda) è tutto ricoperto da una lastra dorata.
Potrebbe anche essere oro, ma non ci giurerei.
Qualche foto
dalla terrazza che dà su Chiang Mai, un po’ di cibo comprato a pochi baht e si
riparte per tornare alla guest house affrontando il freddo, intensificato
dall’assenza del sole.
La città ci accoglie con un clima più mite, il solito traffico e l'ormai classico street food con tutte le sue specialità deliziose e a buon mercato!