venerdì 16 gennaio 2015

Chiang Mai



Viaggiare in seconda classe non sempre è meglio che viaggiare in terza. Il tratto da Phitsanulok a Chiang Mai, rigorosamente in treno, è stato parecchio freddo. Per non si sa quale motivo hanno deciso di mettere l’aria condizionata al massimo nonostante la temperatura esterna fosse più che accettabile. Eravamo tutti con almeno una giacca o una felpa. Arrivati a destinazione ed evitati come di routine i tuk-tuk, ci siamo diretti a piedi verso la guest house. Abbiamo deciso di smettere di prenotare posti per andare un po’ all’avventura: una specie di esercizio per imparare a vivere senza tenere tutto sotto controllo.

In realtà se avessimo provato a fare un’esperienza del genere un paio d’anni fa ci saremmo trovati parecchio male: siamo in alta stagione e prima del colpo di stato la Tailandia era inondata da turisti provenienti da ogni parte del globo. Ora invece le news hanno disseminato la notizia del cambio di potere col solito stupido allarmismo con la conseguenza diretta di affondare l’economia turistica di tutta la regione. In realtà il colpo di stato è stato accolto con molto favore dalla popolazione e gli unici che protestano sono i politici che sono stati spodestati, politici corrotti che hanno sperperato soldi con manovre populistiche e che continuano a voler riprendere il loro posto in parlamento… mi ricorda uno scenario noto… ma senza colpo di stato (o almeno, non di tipo militare).
A passeggiare per le strade non vi rendereste nemmeno conto che sia sotto “regime militare”. Al contrario, non c’è nessuno spiegamento di forze se non pochissimi militari a guardia delle stazioni e, ovviamente, delle frontiere. Parlando con i locali c’è un sentimento di stima nei confronti dell’arma che li ha liberati dalla corruzione di Stato e corpi di polizia. Qualcuno dice sorridendo che i militari “ci stanno insegnando la democrazia un poco alla volta”. E non è difficile da credere: invece di rimanere al potere in eterno, hanno deciso di governare per un annetto in modo da far stabilizzare la situazione, per poi indire nuove elezioni democratiche. Sono già state indette e, presto, tutto tornerà alla normalità, turismo compreso.


Chiang Mai è una città quadrata di circa un chilometro e mezzo di lato, circondata da un largo fossato. In antichità era dotata di mura ma oggi rimangono solo le quattro porte e qualche frammento di muro qua e là. Ad osservare le mura non le trovereste affatto dissimili da mura romane, se non per un piccolo dettaglio: sono tutte storte. I nostri avi erano ossessionati dal creare edifici con fondamenta estremamente solide… evidentemente la lezione non è arrivata fino qui. Tutto ciò che è antico è storto. Storte le mura, storti i chedi, storti i templi ma tutto miracolosamente ancora in piedi.  

Beh, non proprio miracolosamente. È usanza diffusa in gran parte dell’asia il ripristinare le vestigia dei tempi andati ricostruendole. Molti si chiederanno dove sia il problema. È presto detto: se un archeologo decidesse di studiare le strutture per provare a comprenderne la collocazione storica, si troverebbe con non pochi grattacapi da risolvere. Tutto viene ricostruito usando gli stessi materiali di una volta e le stesse tecniche. Persino i dipinti vengono rinfrescati periodicamente lasciando così come unico indizio dell’età di un monumento la tradizione scritta o orale. Eventualmente uno specialista saprà trovare altri appigli e l’occhio allenato scoprirà anche il più piccolo dettaglio utile allo studio ma, immagino, l’ambiente accademico sarà tutto uno scontro su quella o quell’altra datazione.

Finito rapidamente il tour di templi e vestigia rimane “solo” da godersi la città. Piccola, relativamente tranquilla, economica, piena di buon cibo da assaggiare. Ma, soprattutto, piena di occidentali. Il clima mite, i costi contenuti e la buona vivibilità in generale l’hanno resa una delle mete più ambite per lavorare all’estero. La percentuale di asiatici su occidentali è la stessa che si può trovare a Melbourne solo che qui, gli immigrati, siamo noi. Purtroppo ovunque arriviamo portiamo la nostra cultura, denaturando quella che colonizziamo. Dobbiamo andare un po’ fuori città per trovare i sorrisi genuini e le buone maniere che tanto ci piacciono della Tailandia.

L’ultimo giorno decidiamo di affittare un motorino per andare a scoprire qualche località più distante: il distretto dove si produce la seta, il “Tiger Kingdom” e l’area templare Wat Phrathat Doi Suthep in cima alla montagna.

All’inizio un po’ incerto, prendo confidenza col veicolo (uno scooterone da 150 cc), poi Ame sale dietro e siamo pronti per l’avventura! Bisogna stare attenti, il traffico c’è e la cura per quelli sui motorini non è tanta ma, tutto sommato, non è peggio di Roma. Basta poco e tutto diventa naturale e divertente, svicolando nel traffico col vento in faccia!

Nel distretto della seta abbiamo l’opportunità di osservare tutto il processo produttivo, dalla falena al tessuto passando per i telai tradizionali a pedale. Ovviamente è annesso il negozio e i prezzi sono alti, ma giustificati. Il processo per ottenere un buon tessuto di seta è lentissimo ed incredibilmente laborioso: si parla di mesi di lavoro per ottenere qualche decina di metri del pregiato prodotto finito.

Arriva poi il momento del “Tiger Kingdom”. Entrambi siamo parecchio fissati coi felini per cui ci sembrava una buona idea toglierci lo sfizio di dare una grattata di schiena a qualcosa di più grosso di un gatto. Non è stata affatto una buona idea. Anzi, devo dire che non è e non sarà mai una buona idea questo tipo di attività turistica. Questi grossi felini devono essere necessariamente drogati per poter tollerare l’afflusso di turisti che non vedono l’ora di spalmarsi sulle loro pellicce. Quelli che non sono a contatto col pubblico vivono in recinti di medie dimensioni ma sicuramente spazi troppo piccoli per loro. Anche i cuccioli sono spenti… mi prende una tristezza indescrivibile e non posso far altro che guardare queste mirabili bestie con compassione. Ma forse quelle nei parchi a tema sono le ultime tigri della Tailandia: non mi sono documentato a proposito ma i locali mi hanno detto che tigri selvatiche non ce ne stanno più. Avremmo voluto rimanere a strapazzare di coccole qualche cucciolo ma ci vengono dati appena 15 minuti. Una miseria. Andiamo via con l’amaro in bocca ma fortunatamente gironzolare in motorino ci fa tornare il sorriso.

Magliettina, vento in faccia, temperatura mite, maciniamo chilometri lungo la strada che porta al tempio. Inizia la salita, i primi tornanti e in poco tempo ci troviamo qualche centinaio di metri più su; l’aria comincia a rinfrescare, ma è ancora piacevole. Ma girato dietro la montagna, nella parte in ombra, ecco che arriva in petto un freddo glaciale totalmente inaspettato. Dopo venti minuti di tornanti arriviamo ai piedi del tempio battendo i denti, un’escursione termica mai vista.

Per accedere all’area sacra bisogna arrampicarsi per uno sproposito di gradini, delimitati dai soliti serpentoni a fauci spalancate. Sul percorso bambine vestite in abiti tradizionali che aspettano il turista per farsi una foto e ricevere qualche moneta. La strada in salita è lunga e ci vuole un allenamento in stile Kung-Fu Panda per arrivare in cima senza fermarsi. Coi polmoni in mano e la milza a seguito arriviamo di fronte l’ingresso, sbarrato dal bigliettaio che senza pietà ci dice “30 baht”. Tiro qualche impropero per la disonestà della faccenda (potevano pure dirlo all’inizio della scalata, che magari ci pensavo due volte prima di fare la faticaccia!) e poi, con Ame, decidiamo di non entrare. Perché, sì, alla fine sono tutti uguali.

Decidiamo così di camminare attorno per goderci il panorama e, gira che ti rigira, inaspettatamente ci troviamo all’interno. Scopriamo che il perimetro della struttura è un colabrodo pieno di ingressi più o meno leciti. L’interno, come pronosticato, è simile a tanti altri con la sola differenza che qui il chedi (la struttura a campana in cui riposano le ceneri di un re o un budda) è tutto ricoperto da una lastra dorata. Potrebbe anche essere oro, ma non ci giurerei.

Qualche foto dalla terrazza che dà su Chiang Mai, un po’ di cibo comprato a pochi baht e si riparte per tornare alla guest house affrontando il freddo, intensificato dall’assenza del sole. 
La città ci accoglie con un clima più mite, il solito traffico e l'ormai classico street food con tutte le sue specialità deliziose e a buon mercato!